“Credo che sia inevitabile la necessità di alcune regole, ma bisogna fare attenzione”. È quello che ha detto Mark Zuckerberg, CEO e fondatore di Facebook, nel suo secondo giorno di audizione alla Camera del Congresso degli Stati Uniti sul caso Cambridge Analytica. Nella prima audizione di martedì, di fronte alle due commissioni congiunte del Senato, giudiziaria e del commercio, Zuckerberg si è assunto le responsabilità del caso. «Non abbiamo avuto una visione sufficientemente ampia delle nostre responsabilità ed è stato un errore. È stato un mio errore e me ne scuso – ha detto. Ho ideato Facebook, ora lo gestisco e sono responsabile per ciò che accade al suo interno. Quindi ora è necessario affrontare ogni aspetto della nostra relazione con gli utenti e assicurarci di avere una visione sufficientemente ampia delle nostre responsabilità», ha aggiunto. E in parte lo ha già fatto. Zuckerberg ha, infatti, comunicato che da lunedì è già disponibile un link nelle impostazioni per sapere se i nostri dati siano stati ceduti alla società Cambridge Analytica.
E le parole di Zuckerberg e l’ammissione di colpa hanno dato fiducia agli investitori in borsa (il titolo di Facebook ha guadagnato 4,5 punti – il miglior risultato dagli ultimi due anni, dicono).
Non è da poco, per un’azienda, ammettere una colpa di questa portata. Ricorderemo le parole del CEO di Facebook ancora per un po’ di tempo. O forse no. Forse ce ne dimenticheremo e continueremo a usare Facebook come prima, come abbiamo sempre fatto, senza consapevolezza. Eppure gli strumenti di tutela della privacy ci sono. Lo ha ricordato anche Zuckerberg che ha sottolineato come spesso gli utenti non utilizzino di fatto i controlli messi a disposizione da Facebook sulla possibilità di scegliere il livello di privacy. E sulla questione fake news e propaganda, Zuckerberg ha ammesso – per la prima volta – che Facebook è responsabile per i contenuti, ma “non ne produciamo”, ha sottolineato, e per questo motivo l’azienda non può essere considerata un editore.
Ora, fatta l’introduzione istituzionale, apriamo una parentesi (con una domanda).
Resta il fatto che Facebook ha violato la nostra privacy. Vero. Ma davvero è tutta e solo colpa di Facebook? A caldo risponderemmo tutti di sì. Inutile dire: tutti a puntare il dito. L’idea che qualcuno sappia tutto di noi, ci spii, conosca i nostri gusti, le nostre abitudini e i nostri posti preferiti è una cosa che ci fa paura. Preferiremmo sapere che le pareti di casa nostra sono spesse e che nessuno possa vedere dal buco della serratura o sentire attraverso i vetri della finestra. Ci piacerebbe che fosse così. C’è stato un tempo in cui questo era possibile e il massimo delle informazioni che riuscivamo a cogliere sugli altri era apprendendo le ultime novità dalla vicina di casa.
Che ci piaccia o no, abbiamo rinunciato alla nostra privacy nel momento in cui ci siamo aperti a internet e, ancora di più, quando siamo approdati sui social network. Nessuno ci ha imposto nulla. Abbiamo deciso di rendere pubblico il giorno del nostro compleanno (perché ci piace che gli altri si ricordino di noi), gli scatti delle nostre vacanze, di anniversari vari e, perché no, anche dei nostri ricoveri in ospedale. Abbiamo deciso di geolocalizzarci nell’ultimo locale alla moda della città, di fotografare i nostri passaporti e le nostre carte d’imbarco del viaggio a Bali. Abbiamo deciso di pubblicare tutte le emozioni dei nostri figli, fratelli o sorelle, maggiorenni e minorenni. Abbiamo deciso di dire la nostra su qualsiasi argomento (perché la tuttologia paga, la professionalizzazione non più) e di apprezzare i contenuti degli altri con cuoricini, like e reazioni. Abbiamo deciso di condividere gioie, paure, ansie e ambizioni autorizzando un algoritmo a farci sapere in che anno moriremo, quanti figli avremo e quanti sosia abbiamo nel mondo. Abbiamo fatto una serie di scelte senza consapevolezza, senza essere educati al digitale. Abbiamo approvato come fonte attendibile i contenuti pubblicati dai nostri amici e abbiamo deciso di far girare la disinformazione.
Abbiamo deciso queste e tante altre cose. Eppure nessuno ce le ha imposte.
Ma forse è vero. Forse è solo tutta colpa di Facebook, di Cambridge Analytica e dei nuovi strumenti. O forse è anche colpa nostra. Ma chi può dirlo, dopotutto.