
È finita da poco la conferenza stampa dell’Eurogruppo – che ha trovato un accordo dopo circa 20 ore di riunione – ma ho la timeline di Twitter che scorre qui di fianco a questa finestra, per cogliere quello che arriva dalla bolla di Bruxelles. Su WhatsApp web sto portando avanti qualche conversazione che è iniziata con i cinguettii (a un certo punto poi non bastano se partono i simposi), mentre su Facebook e in direct su Instagram provo a rispondere a qualche domanda sul MES. Fatta eccezione per questa parentesi #Eurogruppo, le mie giornate da quarantena finiscono quasi sempre così, dal pc al cellulare. Poi, lo devo ammettere, arriva quell’ora in cui – a seconda del mio livello di stanchezza – silenzio tutto. E, amici, chi s’è visto s’è visto. È un po’ la vita di chi tiene in mano (letteralmente) i social: notifiche continue, mille identità. E un giorno so che mi sveglierò e mi interrogherò amleticamente chiedendomi «chi sono io?».
Ad ogni modo, dicevo. I miei giorni da quarantena finiscono quasi tutti così. Chiuso il lavoro – si fa per dire – mi capita di leggere: il libro che ho in questo momento sul comodino, Parlarne tra amici di Sally Rooney (una penna in cui mi immedesimo facilmente); pagine che ho salvato tra i miei preferiti del web; le newsletter che non ho ancora aperto a fine giornata; oppure, più semplicemente, cose che mi sembrano necessarie ed essenziali per il mio progetto di ricerca.
Probabilmente quando avrò pubblicato questo post una buona parte di voi che mi legge starà già dormendo (se siete smartworker mattinieri lo starete già facendo di sicuro), ma questa sera è andata un po’ come ai tempi del Caro diario, […] quando prima di andare a dormire lucchettavo pensieri ed emozioni della giornata nel mio diario segreto, rosso e con i fiori. Ma ci tengo a precisarlo: questo blog non nasce come una raccolta delle pagine di un diario segreto – e non ha alcuna pretesa di diventarlo. Ma in questi ultimi giorni ho realizzato una cosa che volevo condividere qui sopra, come una sorta di esperimento sociale messo in open source.
Qualche giorno fa, in uno dei miei tempi morti da social media manager (non credete a chi vi dice che esistono, è solo licenza poetica concessa), scorrendo la mia Home di Facebook mi sono imbattuta in un video, anche abbastanza semplice, dove dentro ci sono molte persone che conosco, parecchi amici e alcuni di una vita. Niente di che o di troppo elaborato. Se non che, in questo video c’è tutto: condivisione, progettualità, amicizia, coraggio, noia, paura, sforzi. Ma la cosa – e qui arriva l’open source – che più di tutte assume il peso più importante, in questo momento particolare della nostra vita, è quella sensazione che tutti conosciamo come appartenenza.
Come ho scritto in uno dei miei ultimi post e nella newsletter che ho mandato qualche giorno fa, in questa quarantena stiamo imparando a convivere con emozioni che forse prima non avevamo mai provato o con cui non avevamo mai avuto a che fare a questo livello. E l’appartenenza è sicuramente tra queste. Non perché prima non la provassimo, ma quasi sicuramente buona parte di noi la dava per scontata: appartenenza a una famiglia, a un gruppo di amici, di lavoro o sociale. Se c’è una cosa – tra le tante – che la quarantena ci sta insegnando è il non dare per scontate le cose. In queste settimane mi sono più volte imbattuta in post che, scanditi nel tempo dalle misure prese non solo in Italia, ma negli altri Paesi europei colpiti dall’emergenza, ciascuno a modo proprio manifestano quella nostalgia e quel senso di appartenenza dell’aver dato troppe cose per scontate. La nostalgia della casa in cui si è cresciuti, dei propri genitori, della nonna o di quell’amico che non vedi da una vita e con cui ti riprometti ogni volta di prendere il caffè. Quella voglia di abbracciare e dare un bacio che prima facevamo con naturalezza e che per darne un senso, ora, proviamo a sostituirli con una gif (perché le emoji non bastano più). Il senso di appartenenza, più manifesto o più latente che sia in una o in un’altra persona, resta pur sempre senso di appartenenza. Non si tratta della pizza fatta in casa, degli aperitivi in call o dei flashmob sui balconi: stiamo imparando, durante questa quarantena, che apparteniamo a una comunità, a un progetto, a una bella idea.
Stiamo riscoprendo noi stessi. Io per prima. E il senso di appartenenza in questo fa il suo gran bel lavoro. Quel video che ho visto non ha niente di speciale, graficamente parlando. Ma averci visto dentro i miei amici e persone che conosco da quando sono piccola, ragazzi e ragazze con cui sono cresciuta, mi ha suscitato delle emozioni che in questi anni ho dato per scontate. Lontana da loro – per ragioni geografiche, è evidente – non mi sono curata di fermarmi e pensare cosa provavo rispetto proprio al senso di appartenenza nei loro confronti. Ma mentre lo guardavo, ho pensato “è davvero un bel gruppo e io sono fortunata a conoscerli”. Credetemi, è stata davvero una bella sensazione provare quelle emozioni. Ma io non sono una tipa sentimentale e non vi dirò che gli occhi sono diventati lucidi (ops!)
C’è chi sostiene che questa quarantena farà uscire la nostra parte individualista, alienati e troppo indipendenti. Personalmente non sono d’accordo. E se c’è una parte che si colloca dalla parte opposta, fatemi spazio. La quarantena, nonostante le grandi difficoltà che ci sta facendo vivere – prima fra tutte, la solitudine per molte persone – con i suoi tempi, ci fa scoprire il lato bello delle cose. E quando usciremo fuori il giorno dopo, sono certa che avremo acquisito una nuova consapevolezza e sarà come aver vissuto una nuova adolescenza. Il voler appartenere ci guiderà nelle nostre nuove relazioni sociali. Uno sport, un’associazione, una famiglia allargata o una nascita: saranno anche queste piccole – ma grandi – cose in condivisione a farci ripartire, tutti insieme. E magari la pausa caffè con i colleghi o la pizza con gli amici non saranno mai più dati per scontati.
Mi piacerebbe avere tutte le persone che conosco e a cui tengo in prossimità, così da poterle riabbracciare quando tutto questo sarà finito. Ho gente sparsa per il mondo (Australia compresa) e vorrei che questo post fosse già di per sé un abbraccio virtuale per chi vuole coglierlo, in questo tempo di mezzo. E alla fine, torneremo ad abbracciarci di nuovo.