Benvenuti in Italia, Paese di canzonette e carbonare, di tampon tax stroncate e di incazzature sui femminili singolari e plurali. Se come me siete reduci da Sanremo 2021 seguito appassionatamente dal divano – luogo simbolo da dove partono le grandi rivoluzioni nel nostro Paese – saprete che durante la penultima serata, mentre stavamo cercando di orientarci nella nuova mappa dei colori delle Regioni in questo Monopoli di emozioni, sul palco dell’Ariston Beatrice Venezi, ospite di Amadeus in questa settantunesima edizione del Festival, sceglieva di farsi chiamare direttore e non direttrice d’orchestra. Una scelta quella di Beatrice Venezi, 31 anni e con una carriera che l’ha portata ad essere la più giovane in Europa a dirigere un’orchestra, completamente in controtendenza rispetto al lavoro che sociolinguiste e femministe stanno facendo da anni per combattere gli stereotipi maschili e il machismo che governa imprese, società o settori come la ristorazione o anche la musica, per l’appunto. C’è voluto il tempo dei 140 caratteri canonici per mandare nel flusso di Twitter la disapprovazione social verso una donna che invece di declinare la sua professione al femminile sceglie di piegarsi al patriarcato, al mansplaining e al maschilismo che governa la kermesse italiana più attesa durante l’anno. Insomma, così dicono in giro di Sanremo – perché dobbiamo sempre trovarci il pelo nell’uovo.
Eppure Beatrice Venezi appartiene alla generazione probabilmente la più bastonata degli ultimi trent’anni: senza lavoro, senza speranze, senza figli, senza una casa di proprietà. Per intenderci: quella dei Millennial, a cui appartengo pure io. Siamo cresciute con il Cioè nello zaino rivendicando la pancia scoperta, i collant e le minigonne di jeans mentre insegnanti ed educatrici provavano a rinchiuderci dentro i confini del pudore, del ciclo mestruale innominabile e dell’assorbente nascosto nel tragitto classe-bagno. Probabilmente anche Beatrice avrà attraversato la mia stessa rivoluzione perché siamo coetanee e alla fin fine gli anni Novanta e i primi Duemila sono stati un passaggio fondamentale per noi ragazzine di Britney.
Ma allora perché Beatrice Venezi, in diretta nazionale sulla Rai – che pure pure è servizio pubblico – sceglie di non emanciparsi e di non declinare la sua professione? “Per me quello che conta è il talento e la preparazione con cui si svolge un determinato lavoro”, ha detto. “Le professioni hanno un nome preciso e nel mio caso è direttore d’orchestra. Mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo” e così ha concluso. In trenta secondi e in prima serata è finita nel cesso la revolución e abbiamo lasciato vincere il patriarcato. Perlomeno così dicono in giro. E chissà che non abbiano ragione. Ma facciamo un attimo un passo indietro.
In questi anni siamo state molto brave – e continuiamo ad esserlo per fortuna – a farci strada e a portare avanti il nostro diritto ad essere protagoniste: in azienda e ai vertici delle partecipate, nelle prime e nelle seconde serate, a scuola, nello sport, in politica, nel giornalismo e in tanti altri settori come musica e spettacolo. Certo, a me ancora capitano uomini che pensano che io mi trovi di fronte al loro per puro caso e non pensano di dovermi porgere la mano in segno di rispetto, ma questo è un altro paio di maniche. Fatto sta che nel nostro sgomitare per conquistare l’empowerment femminile – e chissà cosa sia poi oggi questo famoso empowerment femminile – ci siamo trascinate appresso anche la battaglia per i femminili. Una battaglia sacrosanta per arrivare a occupare ruoli apicali in settori professionali un tempo prerogativa dei soli uomini.
Il punto è che in questa battaglia dei femminili abbiamo dimenticato di dosare bene i fattori politicizzazione e libertà: abbiamo politicizzato il palco dell’Ariston – ma solo su quello che ci fa più comodo – e abbiamo deciso noi per la direttrice d’orchestra. E qui vengo al dunque. Che sia maschio o femmina, magra o bionda, sposata o single, può trattarsi di Beatrice Venezi come della mia vicina di casa: la libertà dovrebbe rimanere tale per chi sceglie di autodefinirsi con la desinenza -ice o di riconoscersi in altro termine. Il rischio è di (s)cadere nel gioco di cosa è di destra e cosa di sinistra in questa lotta per i femminili: i collant son quasi sempre di sinistra, il reggicalze è più che mai di destra, ma anche gli attacchi di donne simbolo della nostra politica sono o poco di sinistra o troppo di destra. Insomma, l’effetto politicizzazione ha scatenato l’accanimento mediatico contro una scelta di Beatrice Venezi, facendo passare in sordina l’informazione che invece secondo me avrebbe dovuto avere l’attenzione giusta, ovvero quella legata alla sua giovane età. Cosa di cui avremmo dovuto vantarci tutte insieme, nel mare di tweet indignati.
La chiudo qui. Per quanto mi riguarda sarò sempre dalla parte delle donne, ma sono anche dalla parte di chi sceglie per sé – che poi è lo stesso principio delle donne che scelgono di diventare madri, di abortire, di non volere figli, di sentirsi meglio in un corpo più magro o di riconoscersi nel genere non-binary. Arrabbiamoci per l’ipocrisia di chi ci racconta della parità di genere nei partiti, ma poi la rivoluzione meglio farla sui social. Arrabbiamoci per donne che odiano le donne attraverso il mobbing, il bossing o lo straining. Arrabbiamoci per tutti i silenzi di fronte alle vignette sessiste sulle donne. Arrabbiamoci per tutte le critiche subite per le minigonne troppo corte, il rossetto troppo rosso, la scollatura esagerata o le calze a rete. E la prossima volta, Sanremo o non Sanremo, arrabbiamoci anche per chi vuole farci passare il messaggio che sia tutto una continua competizione tra uomini e donne, tra maschili e femminili, tra destra e sinistra: perché questa strumentalizzazione non fa bene a nessuno. Soprattutto a chi verrà dopo di noi.