Qualche settimana fa, il Commissario all’Ambiente Virginijus Sinkevičius è stato in visita a Roma e, tra le altre cose, ha tenuto un punto stampa con il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Il Commissario ha affrontato diversi temi tra cui la questione della siccità strettamente legata all’agricoltura, sottolineando come quest’ultima sia una “parte molto importante” per la quale bisogna prevedere politiche agricole per il “riutilizzo dell’acqua” e interventi per il “trattamento del terreno”. Per approfondire il tema, ne ho parlato in questa intervista, nella mia newsletter Bubble #7, con Giuseppe Castiglione, deputato in Commissione Agricoltura nell’attuale legislatura e già eurodeputato nella 6° (2004-2008).
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Quanto è necessario oggi prevedere strumenti di questa portata per tutti i Paesi europei, ma soprattutto per quelle regioni italiane come Calabria e Sicilia che affrontano criticità stagionali legale al fenomeno?
È fondamentale! L’Italia negli ultimi dodici anni è stata avversata da circa 1.500 eventi climatici estremi – di cui la siccità è esempio paradigmatico – con ben 40 aree maggiormente colpite da tali fenomeni: un trend assolutamente preoccupante e che accenna ad aggravarsi sempre di più. La preoccupazione cresce a dismisura se consideriamo che le catastrofi climatiche degli ultimi anni hanno interessato in particolar modo le regioni del Sud. Tra queste, la Calabria e la Sicilia rappresentano due tra le aree maggiormente colpite. Senza scadere nella cronaca, l’alluvione che ha colpito la Sicilia orientale il 9-10 febbraio scorso e il nubifragio in Emilia-Romagna dei giorni scorsi hanno richiamato l’attenzione sulla situazione di emergenza cronica in cui versa il nostro Paese. Qui in Italia sembra essere diventato endemico un clima di tipo tropicale, che costituisce la causa diretta dei fenomeni siccitosi che interessano da anni l’intera penisola. Sono sconvolgenti le rilevazioni del 2022 sul livello delle acque del fiume Po e del Lago di Garda, al di sotto dei minimi storici.
In questa disastrosa situazione, i comparti che pagano maggiormente il prezzo di questa siccità sono quello agricolo e la filiera agroalimentare. Mi ritrovo, quindi, nelle parole del Commissario Sinkevičius: l’agricoltura deve essere il primo settore a fare un utilizzo sapiente del cosiddetto “oro blu”, la risorsa del futuro, e le Istituzioni – italiane ed europee – dovranno impegnarsi a promuovere politiche di riutilizzo dell’acqua e di trattamento del terreno. Lascia ben sperare l’individuazione da parte del Governo di un Commissario ad hoc e la creazione di un’unità di crisi nazionale che, di concerto con le Regioni, possano intercettare le necessità del territorio e intervenire con misure appropriate e soprattutto efficaci. Positivo anche il richiamo nel Def 2023-2025 di un nuovo piano di invasi per aumentare la percentuale di risorse idriche trattenibili dalle, sia pur esigue, piogge. Infine, bene la designazione da parte dello stesso Commissario del Mediterraneo come “area SECA” (cioè a emissioni marittime controllate) e l’istituzione della Missione Oceani, nata per proteggere gli oceani e sviluppare un’economia blu sostenibile. Solo grazie ad interventi di tipo strutturale – come il potenziamento del sistema idrico e l’utilizzo di tecnologie sostenibili d’avanguardia – l’Italia sarà in grado di mitigare il rischio idrogeologico e uscire da una condizione di emergenza cronica.
Sentiamo parlare di PNRR, ma non ne vediamo mai una reale messa a terra (considerati anche i ritardi), soprattutto in settori come l’agricoltura. C’è qualcosa che il governo si sta facendo sfuggire?
Credo che questa sia la domanda ricorrente su cui la maggior parte degli italiani si interroga da un po’ di tempo a questa parte. Sono convinto che il PNRR rappresenti un’opportunità di crescita strutturale irripetibile, non solo per traghettare il Paese fuori dalle secche della pandemia, ma per imprimere una svolta virtuosa a tanti settori chiave della nostra economia, agricoltura compresa. E perché tale opportunità è irripetibile? Perché siamo chiamati a un esercizio di responsabilità nella costruzione dei progetti e nella gestione di fondi che, provenendo indirettamente dalle nostre tasse e prevedendo una sorta di “controllore esterno” – l’Europa – non possiamo permetterci assolutamente di sperperare. È bene ricordare, infatti, che gran parte delle risorse del PNRR non sono a fondo perduto. La responsabilità, quindi, è ancora maggiore.
Spiace dover constatare che, al netto di queste premesse, i governi che si sono succeduti hanno miseramente fallito. Le ammissioni da parte di questo esecutivo delle ultime settimane e il progetto di legge di modifica delle condizioni del Piano, recentemente approvato in Parlamento, evidenziano questo dato politico evidente ed inconfutabile. E non importa di chi sia la colpa, anche perché la corsa allo scaricabarile finisce per svilire ulteriormente l’immagine del Paese.
Sentire il Ministro Fitto ammettere che entro il 2026 non si arriverà a mettere a terra tutti i milestone previsti, credo sia molto grave e triste allo stesso tempo. Ricordo un obiettivo per le energie rinnovabili a me caro e prefissato dal PNRR, nell’ambito della realizzazione del progetto “Parco Agrisolare” e per il quale è stata prevista una dotazione di 1,5 miliardi. Ad oggi ne sono stati utilizzati appena 500 milioni. In un periodo storico in cui l’emergenza energetica rappresenta tema ricorrente, mi auguro che questi fondi vengano investiti quanto prima.
Da ultimo, la scelta di accentrare la gestione di tutte le risorse in capo al Governo e al Ministro Fitto, per guadagnare maggiori margini di manovra, non è sicuramente la soluzione. Anzi, sembra un tentativo estremo di mettere una pezza a una situazione difficile. E se a ciò si uniscono i ritardi nella utilizzazione dei fondi strutturali e del Fondo di Sviluppo e Coesione, lo scenario è davvero disastroso. Se alla fine le risorse andranno perdute, qualcuno ne dovrà dar conto agli italiani.
Un’ultima domanda. Da ex relatore al Parlamento europeo alla riforma del settore vitivinicolo, approvata nel 2007, che ne pensa della decisione dell’Irlanda di etichettare le bevande alcoliche, incluse il vino, con avvertenze sui possibili danni per la salute?
Francamente, trovo la posizione dell’Irlanda totalmente incomprensibile – per non dire assurda – se consideriamo che Dublino nel settore vitivinicolo ha nulla o quasi nulla da offrire. E allora perché demonizzare una bevanda come il vino? Peraltro, sarebbe bene ribadire una volta per tutte che bisogna distinguere opportunamente le “bevande alcoliche” dal vino.
La battaglia in Europa si gioca e si giocherà anche in termini di alleanze di Paesi produttori ed esportatori, soprattutto sul terreno di questa distinzione. Se, infatti, vi sono delle bevande alcoliche il cui uso prolungato può portare delle conseguenze negative per la salute, così non sembra essere per il vino, il quale è frutto di processi naturali privi di contaminazioni e le cui conseguenze di consumo non hanno trovato sino a ora evidenze negative sulle quali vi è consenso unanime. Ciò che va condannato, piuttosto, è come sempre l’abuso, che è ben diverso dal consumo responsabile.
Questo è un messaggio molto importante che è bene che venga compreso anche a Bruxelles. Perché, se questa proposta passasse, darebbe il via a una serie di conseguenze negative per il comparto agroalimentare e vitivinicolo italiano di portata enorme. Oltre a un considerevole danno di immagine di un prodotto simbolo del Made in Italy, si stima che la misura costerebbe al nostro comparto agroalimentare più di un miliardo di euro.
Chiudo con una battuta. Ricorderemo certamente la vicenda del Nutriscore di qualche anno fa, con la quale un certo Paese europeo aveva tentato di penalizzare – sempre a mezzo “etichettatura” – la dieta mediterranea, di cui l’Italia è di diritto la massima rappresentante nel mondo. Forse che anche questa volta ci sia l’intenzione – maldestra – di colpire indirettamente i prodotti Made in Italy? E rispondo citando Giulio Andreotti: “A pensar male si fa peccato, ma molto spesso…”.