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Come sta la mia salute mentale dopo due mesi di fatigue

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Marzo 2025. Eccoci qui. Finalmente ho la forza mentale, e fisica, per raccontare il trambusto interno di una malattia autoimmune. Anche se non è facile, farlo pubblicamente. Perché è vero che parliamo di salute mentale più e meglio di quanto lo abbia fatto la generazione dei nostri genitori, però ne parliamo in ogni caso come qualcosa di “meglio a te, che a me”. Senza colpevolizzare nessuno, è comunque un pensiero nascosto là sotto, recondito, a cui – da interlocutore in ascolto – non darai mai voce. E che comunque sta bene su tutto (come il pistacchio su Instagram). E quindi pure alle malattie rare e croniche. Un sincero e senza veli “meglio a lei che a me”.

A dicembre 2023 avevo trascritto qui sul blog il resoconto dell’anno, di come sia vivere con una malattia rara e invisibile. Delle difficoltà che avevo sperimentato due anni fa e della forza che avevo comunque trovato nel fare nuove cose, accanto a quelle di sempre. È stato un esercizio di riflessione personale – e anche di autostima, perché no – che mi ha aiutata a ripercorrere i 12 mesi precedenti che insieme fanno un anno, e che dai venticinque anni in poi trascorrono alla velocità della luce, senza remissione di peccati. Ché un attimo prima sei con i piedi a mollo a ferragosto e quello dopo sul divano a scrollare Tik Tok a tema Natale e Mariah Carey.

Quest’anno avrei voluto fare lo stesso. Perché il blog è mio e lo gestisco io (ché di questi tempi è prezioso quanto l’oro e il mattone). Però non ce l’ho fatta. Non voglio elencare le volte in cui ho aperto il blog e ho lasciato incompiuto questo esercizio di scrittura e riconoscimento personale, perché sono innumerevoli queste volte. E oltre a essere innumerevoli, sono state anche sfiancanti. Psicologicamente e fisicamente parlando. Perché, scrivere di se stessi in certi versi, è un impegno che richiede ogni fibra del corpo e ogni neurone attivo e sinapticamente consapevole.

A dicembre 2024 le cose sono andate molto diversamente da dicembre 2023. Stranamente, e secondo le impressioni visibili e invisibili da referti e controlli, avrei dovuto – o almeno potuto – sentirmi meglio. Invece verso la metà del mese ho iniziato ad avvertire una sensazione di stanchezza pesante, diversa dalla mia solita routine di stanchezza quotidiana – con cui comunque ho imparato a convivere, almeno negli ultimi nove anni. Non mi sono resa subito conto di quello che oggi riporto scrivendo questa rassegna dei fatti, l’ho capito piuttosto circa tre settimane fa.

Durante le vacanze di Natale ho dormito più ore del solito – all’inizio, pensavo, che vabbè tutti nelle vacanze dormiamo di più. E quando ero sveglia ero comunque stanca, appesantita, persino nervosa al culmine di questa stanchezza giornaliera e in difficoltà nel formulare pensieri o per sostenere una semplice conversazione. O ancora, che fosse solo per fare le cose semplici di tutti i giorni, come lavarmi o truccarmi.

Saltando le imprecazioni che ci sono state in mezzo perché – hey, ti pare che una trentenne deve avere la forza di un’ottantenne -, questo processo di cose semplici è diventato sempre più stancante e faticoso. Fino ad arrivare alla metà di gennaio, quando alzarsi dal letto la mattina è diventata una tortura travestita dal prima o poi passa, oltre che una tarantella che cambiava ritmo improvvisamente: un momento prima ero cadaverica a letto, un momento dopo come se niente fosse successo. Una situazione che ha dell’assurdo agli occhi esterni, e pure ai miei stessi occhi perché sembra di vivere in due corpi diversi. A mettere il marchio a questo periodo, ci hanno pensato le occhiaie. Anzi, più che occhiaie, direi borse. E io non ho mai sofferto particolarmente di occhiaie, né di borse, ma da dicembre a febbraio ho avuto proprio delle Louis Vuitton sotto gli occhi. E se non fossimo in un periodo in cui si regalano Hermès false, giurerei che le mie sono state vere.

Per restare in tema fransé, in mezzo ci ho messo anche un viaggio a Parigi. Non perché io sia autolesionista o perché creda in un qualche metodo non scientificamente approvato di terapia d’urto del dolore, ma perché l’avevo prenotato a settembre e perché mi meritavo di fare una mini-vacanza, dopotutto. Dopo-tutto-questo-dolore-fisico-e-psicologico. Ho pensato che mi avrebbe tirato su l’umore. Povera ingenua, io che credo ancora alle sirene e agli unicorni.

Saltando la parentesi Parigi che mi ha ricordato i miei vent’anni – oltre che l’importanza di calibrare bene le proteine a colazione per scongiurare cali ipoglicemici, mentre sei in fila per entrare al Louvre -, arriviamo a due mesi dopo, da quando questa tarantella di dolori e di immobilismo dei pensieri è diventata riconoscibile ai miei occhi e ai miei sentimenti come fatigue. O stanchezza cronica.

Ora, io non so se il mondo della scienza la chiami fatigue perché così sembra più elegante e meno invalidante di quella che è. Mi attengo alla scienza nel nominare questa cosa che è comunque una grandissima rottura di scatole. Soprattutto sei hai trent’anni e nel weekend vuoi uscire, piuttosto che stare a casa a raccogliere le energie per lavorare durante la settimana. Perché sì, l’altra faccia delle cose – che online non si vede – è proprio la convivenza con questa tarantella.

Come in ogni cambiamento che si manifesti nello spazio e nella dimensione che viviamo e occupiamo, il corpo è in grado di adattarsi più o meno velocemente agli scombussolamenti esterni e pure interni. Anche quando si tratta di stanchezza cronica. Il mondo scientifico e ospedaliero, comprese le associazioni di pazienti, provano a venirti incontro con strategie terapeutiche occupazionali (oltre ai farmaci che già prendi per reggerti in piedi in mezzo a tutto questo) per aiutarci a comprendere come gestire meglio le energie durante la giornata, a lavoro, e persino durante il sonno. Perché il sonno è importante per il riposo e nei periodi di stanchezza cronica diventa faticoso anche completare un ciclo di sonno. Una cosa che pensavo assurda: vai a dormire stanca, dormi stanca e ti svegli ancora più stanca. Una sorta di Jumanji. Così va avanti questo ciclo vizioso fino a quando l’éra fatigue comincia ad attenuarsi e si intravede la luce alla fine del tunnel. E lì però arriva l’onda che ti investe.

In questi due mesi (e forse anche di più) di stanchezza e fatiche, ho fatto tutto il possibile che era in mio potere e controllo per contenere le mie energie. Quindi, ho dovuto invertire l’ordine di priorità delle mie attività (e soprattutto volontà) quotidiane, mettendo i “no, non ce la faccio” davanti ai “sì, potrei”. Perché vestirti, lavarti, cucinare, lavorare, fare sport, uscire, guidare, vedere gli amici, prendere il treno: tutto questo richiede energia, fisica e mentale. Mi scoraggia (e un po’ mi imbarazza) dire che anche mandare una mail è diventato un momento che, in queste settimane, mi è sembrato in alcuni momenti delle mie giornate insormontabile.

Prima di quest’anno non avevo sperimentato la fatigue. O meglio, non sapevo di avere sperimentato la fatigue – perché un periodo così l’ho già vissuto qualche anno fa, ma non ero ancora molto consapevole dei cambiamenti che una malattia autoimmune comporta. Che altro non è che un corpo che, non capendo cosa fare e chi attaccare, nel dubbio attacca se stesso. Così a buffo, senza che tu gli abbia mai fatto qualcosa di male. È così. E no, praticare il mangia, prega, ama non risolve la patologia. Solo la scienza e la ricerca lo fanno.

Dunque, uscita fuori da questo tunnel, mi sono chiesta come sto. E la verità è che sto bene fisicamente, ma psicologicamente ne sono uscita a pezzettini. Come un Lego da costruire. Ma tra poco è primavera e a primavera, finalmente, fioriscono i fiori. Che poi pure la Lego ha i suoi fiori di tanti pezzettini, mica no.

Intanto, faccio nuotate più lunghe in vasca e imparo il portoghese. E l’onda impari a prenderla, prima o dopo.

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Elania Zito
Elania Zito

Sono Elania e sono una Digital Communication & PR Strategist. Sono specializzata in comunicazione e linguaggi, in particolare in comunicazione europea e integrazione europea. Racconto l’Europa fuori dalla bolla con la mia newsletter Bubble e il podcast settimanale UEcup!, ho un Dottorato di Ricerca in Studi Politici e lavoro principalmente con Bruxelles. Ho scritto “La comunicazione politica in Italia” e un saggio sulla leadership di Mario Draghi.

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