Possiamo vederla a occhio nudo, supporre che ci sia o ignorare del tutto che una persona la abbia. La disabilità è una dimensione che percepiamo ancora con molto imbarazzo: può provarlo chi la vive in prima persona per circostanze che hanno portato a condizioni invalidanti, ma anche chi vive alcuni accenni di quotidianità, in maniera diretta o indiretta, di persone con una malattia cronica o rara, malattie anche dette invisibili. Qualsiasi sia la circostanza che ha portato alla disabilità, parlarne e “mostrarla” può contribuire a sensibilizzare, favorire l’inclusione e, soprattutto, contrastare l’abilismo interiorizzato che, senza esserne consapevoli, ci portiamo dentro e proiettiamo nella società. Non è facile comunicare una malattia, ma i social media e le community su Instagram hanno aperto una porta alle persone con disabilità e raccontarne la quotidianità può fare capire che dietro un sorriso si nascondono terapie, sforzi o anche la necessità di riposare.
Gaia Presotto ha la Sclerosi Multipla e non la nasconde: è partita da YouTube con le sue “Giornate di Sclero” per poi approdare su Instagram e raccontare la malattia. La Sclerosi Multipla è una malattia neurodegenerativa e colpisce il sistema nervoso centrale (solo in Italia si contano circa 130mila persone) e con Gaia abbiamo parlato dell’importanza di comunicare le malattie croniche con il linguaggio più adatto, di sensibilizzare sull’abilismo interiorizzato e dell’opportunità di rompere lo stereotipo di “Sclerosi Multipla uguale sedia a rotelle” grazie a Instagram.
Ciao Gaia, benvenuta! Come si comunica una malattia cronica sui social media e quanto è importante secondo te?
Devo dire che è una cosa molto personale. Quello che posso dire è quello che ha funzionato per me e, forse anche vedendo le altre attiviste che seguo, è nata quest’idea del voler aiutare qualcun altro. Si parte anche solo con un progetto, come quello che ho fatto di Giornate di Sclero, però anche le sole pagine di sensibilizzazione hanno sempre come fine principale quello di fare informazione per aiutare. Facendo informazione ci si mette un pochettino nella necessità di dire “Ok queste cose ci sono, ti voglio preparare a questa evenienza”. Che è stato un po’ quello con cui sono partita io: l’obiettivo è stato quello di creare un progetto che potesse far sentire gli altri un po’ più accolti. Ci sono associazioni che già trattano il tema della Sclerosi Multipla, magari da un punto di vista più istituzionale o a 360°, e io stessa ci sono anche spesso entrata in contatto quando ero in cura e non avevo ancora messo in piedi questo progetto, né avevo ancora avuto modo di parlarne più ad alta voce. Ma con il fatto di dover arrivare a una platea molto ampia, spesso per queste associazioni è anche difficile usare il linguaggio corretto. Io stessa non mi sentivo rappresentata perché usavano un linguaggio e una narrazione che parlavano sì a persone con Sclerosi Multipla, ma più grandi e che quindi avevano ricevuto la diagnosi molto prima di me, quando magari ancora non si conosceva la malattia e non c’erano i farmaci per tenerla “sotto controllo”. E hanno avuto una progressione differente da quella che posso avere io.
E così ti sei aperta sui social media…
Proprio avvertendo che non c’era modo per permettermi di confrontarmi su questi temi e su queste scoperte – o anche solo sugli effetti collaterali dei farmaci – ho voluto creare qualcosa che non facesse sentire ad altri la solitudine che ho sentito io. E che togliesse un po’ di stereotipi (anche io ne ho incontrati e vissuti sulla mia pelle). Come lo è quello di iniziare un percorso psicologico: io l’ho rimandato per anni perché, purtroppo, c’è il tabu che dallo psicologo ci vadano solamente le persone che hanno “qualcosa che non va”, per cui devi affrontare le cose da sola, devi riuscire a essere “tu contro il mondo” perché così sei la grande guerriera che combatte ogni giorno la Sclerosi Multipla. E questa purtroppo è una narrazione che in Italia esiste (ma non solo nel nostro Paese). Mi rendo conto, però, che questo stereotipo mi ha fatto male: ho rimandato per anni l’andare a parlare con qualcuno e poi, quando l’ho fatto, è stato fantastico. Non voglio che una persona aspetti cinque o sei anni per affidarsi a uno specialista, perché non è giusto. Ti metti sulle spalle tutto il peso del mondo, per cosa, per soffrire? Perché se soffri sei ancora più figa? No, non è così.
Ci racconti il progetto “Giornate di Sclero”?
Il progetto Giornate di Sclero è nato, come primo obiettivo, per andare incontro alle persone neodiagnosticate e fare informazione più generale per chi la malattia non ce l’ha e non la conosce o la conosce in modo collaterale: la prima cosa che viene in mente sulla SM è “sedia a rotelle”. Volevo, quindi, fare informazione su questo. È vero, ci sono delle situazioni per cui la Sclerosi Multipla può portare alla sedia a rotelle o anche alla sedia a rotelle, perché è comunque una malattia mutevole e quindi dipende anche dal livello di energia: oggi puoi essere in sedia a rotelle, domani con le stampelle, dopodomani cammini normalmente. L’idea iniziale è stata, appunto, questa. E più andavo avanti nella mia idea di parlare solo a persone neodiagnosticate, più mi rendevo conto, però, che anche persone che magari avevano la malattia da cinque o otto anni avevano bisogno di sentire queste cose. Ed effettivamente il pubblico cui potevo parlare e cui stavo parlando era molto più ampio di quanto mi aspettassi io: c’erano persone che avevano un parente, una sorella, un genitore o anche compagne e compagni di persone con la SM che volevano anche solo capire meglio (perché purtroppo c’è ancora un po’ questa paura del parlarne con chi ci sta accanto). E, però, è anche bello il fatto che chi ci stia vicino voglia approfondire. Il passo successivo è stato rendermi conto che certi ostacoli e certi limiti imposti dall’esterno non li hanno solo le persone con la Sclerosi Multipla, ma anzi: mi si è aperta la platea di tutte le malattie cosiddette invisibili e ho iniziato a capire quanto la disabilità possa toccare tutti.
Come si può fare “vedere” una malattia che si “non si vede” agli occhi degli altri?
Facendo attivismo e comunicazione. Parlandone anche nelle scuole, perché in questi contesti manca questo tipo di narrazione (delle malattie invisibili; ndr). Con il messaggio “tu non sei divers*”. Avere una particolarità non può e non deve essere un carattere di esclusione: questo bisogna farlo capire non tanto a chi ha la malattia, ma alle persone che non hanno una patologia, perché potrebbe far capire loro come potersi relazionare e come poter guardare le cose. E, soprattutto, come togliere una vagonata di stereotipi: perché quello che pesa su di me può non pesare, allo stesso modo, su un’altra persona. La cosa più importante è parlarne e non fermarsi al tabù. Fuori c’è un grande contesto per cui non è “permesso” parlarne perché, facendolo, verremmo guardati e guardate con occhi diversi. Se una malattia fosse considerata alla stregua del portare gli occhiali, non verremmo discriminati e discriminate per quello: una persona ipermetrope o astigmatica non prova vergogna nel dire di esserlo. Essere disabile è un po’ diverso.
Tu nella tua attività di sensibilizzazione parli di abilismo interiorizzato. Che cos’è e come si può contribuire ad allontanare questo giudizio?
L’abilismo interiorizzato è stato qualcosa che ho scoperto anche io grazie ai social media e all’attivismo che facevano altre persone. E credo di avere avuto voglia di iniziare a parlarne perché le persone da cui ho imparato che cos’è e che cosa significhi lo fanno in un modo che ti insegna come poterlo superare o come si possa presentare. E dato che era una cosa che mi faceva provare anche vergogna – vergognarmi per 2 euro di sconto al cinema era brutto da ammettere – ho iniziato a parlarne, non per “insegnare a vivere”, ma per fare vedere cosa stia imparando io. Non è un punto di arrivo, ma è tutto il percorso per arrivare a quel punto lì. E io su questo ho ancora tantissimo abilismo interiorizzato. E penso che sia anche quello il bello di poterne parlare sui social, perché si può passare il messaggio del “va bene non sentirsi perfette o perfetti”. È un viaggio di consapevolezza lungo ed è proprio per questo che mi piaceva poterne parlare. E mi rendo conto sulla mia pelle che non sia semplice. C’è sempre questa narrazione di “o guerriera o palla al piede”, due facce della stessa della medaglia, e in questa cosa dell’essere una guerriera anche io all’inizio mi ci crogiolavo molto: portarmi al limite, riuscire a fare le cose nonostante la Sclerosi Multipla non faceva di me una “brava”. Non era da elogiare il fatto di tirare il mio corpo al limite rischiando le ricadute. Però c’è questa narrazione del “se tu vuoi puoi”: se ce la fai tu con una malattia neurodegenerativa e gli altri invece no allora “tu sei meglio”. Ma non è lo stare meglio o peggio, è una cosa diversa. A una persona che porta gli occhiali non chiederemmo mai di sostenere un esame (all’università; ndr) senza. E allora perché io devo sforzarmi? Per questo parlare di abilismo interiorizzato è importante perché, purtroppo, è una cosa veramente subdola. Ci sarà sempre un piccolo angolo in cui si infilerà e ti farà pensare di non essere degna: non solo nelle relazioni amorose, ma anche nelle amicizie. Per cui finisci a dirti “non voglio essere la palla al piede”.
Come si può promuovere l’inclusione, sia online che offline, della disabilità?
Online, continuando a parlarne. Offline, andando al cuore dei vari attori sul tema. Una certa consapevolezza si può raggiungere un po’ più avanti con l’età, ma per un’adolescente è difficile. È lì che bisogna iniziare a promuovere di più l’inclusione, come anche nelle ultime classi delle scuole elementari, dove i bambini potrebbero già aver interiorizzato stereotipi e bias. Dalle scuole elementari fino alle scuole superiori: parlarne per rendere normali certe cose. Non è detto che alle scuole medie una persona non possa soffrire di depressione o avere una diagnosi di diabete. E bisogna avere un contesto pronto per includere. Secondo me, portando sempre più le persone che ne parlano, attivisti e attiviste, nelle scuole come anche nelle aziende: molte di queste non hanno una cultura pronta per una determinata inclusione perché si lavora ancora sul modello del dare il 100 per cento, 24 ore su 24, 7 giorni su 7. È quest’idea della società della performance che non va bene: per me che sono disabile, ma neppure per qualsiasi altra persona.
Cosa ti sentiresti di dire alle persone con malattie invisibili?
Non essere troppo crudeli e crudele con noi stessi e con il nostro corpo. Spesso ci si butta in queste cose del voler tirare tanto per il peso che sentiamo del giudizio degli altri. Per quanto sia difficile farlo – e lo ammetto in prima persona – ogni tanto ci vuole: l’egoismo sano. Ogni tanto è importante prenderci del momento per noi: per leggere un libro, farci un bagno, fare sport. Proteggere i momenti che ci possono fare bene e cercare, per quanto sia possibile, di non sentirci in colpa se ci troviamo in situazioni che noi non possiamo controllare. E che non abbiamo mai cercato.