Nell’affascinante mondo dell’arte della retorica e di quella più sfacciata della politica, esiste una fetta di studi conosciuta come analisi del linguaggio politico che analizza, tra le altre cose, forme, paradigmi e modus operandi di come conquistare il consenso con la parola.
Prima di addentrarmi e spiegarvi in semplici – ma non sufficienti – passaggi su come fare politica con le parole, voglio rassicurarvi sul fatto che – vi piaccia o non vi piaccia – siamo esposti tutti ogni giorno ai magheggi della magnifica arte del linguaggio politico – anestetizzati potrei direi – e per quanto voi possiate dire ‘non mi faccio manipolare da nessuno’, mi dispiace deludervi, ma non sarà mai così.
Confirmatio, peroratio
Che siate di destra, di sinistra, di centro, di sopra o di sotto, siamo sempre influenzabili e suggestionabili alle parole che di per sé comportano emozioni, sentimenti, azioni e reazioni. E non è un novità: l’obiettivo finale di ogni politico è quello di costruire un largo consenso che gli permetta di governare. In genere, è durante le campagne elettorali che il linguaggio politico viene impiegato con maggiore scrupolo, ma in realtà il processo di comunicazione politica tra leader e cittadini (e governanti e governati) è un processo sempre attivo e per questo possiamo parlare di campagna elettorale permanente. Per intenderci, quella a cui ci hanno abituato Matteo Salvini e Luigi Di Maio, da un po’ di tempo a questa parte.
Il potere della parola
Ma come si conquista il consenso? Oggi le continue tecniche di marketing politico e disintermediazione si sovrappongono al tradizionale processo di comunicazione politica che si suddivide in fasi: dalla comunicazione interna incentrata sull’identità del partito, del leader o del movimento si passa alla fase di campaigning con la definizione di un programma politico definito che possa raccogliere non solo le prime file di elettorato, ma anche le ultime, le meno coinvolte. Per concludere, infine, con la fase finale dell’organizzazione del consenso che coincide con il momento che precede il voto, ovvero l’adesione degli elettori alle formule politiche proposte dai leader in campo. Ma in realtà – come leggerete in tutti i testi del mondo sul tema – l’adesione di opinione e consenso non spesso coincidono e buona parte delle reali intenzioni di voto si realizzano all’interno della cabina elettorale stessa, superata la fase di indugi e indecisioni.
What to do
Cosa bisogna fare allora in questa fase? Creare quello che Giovanni Sartori chiama l‘idem sentire, un sentimento di condivisione tra leader e cittadino, realizzare una formula politica che coincida quanto più possibile con i bisogni della società e dei cittadini e pensare una strategia comunicativa in grado di superare l’altalena tra adesione e consenso. Ricordate Berlusconi nel 1994? Come ha precisato Lorella Cedroni, quello che più di tutti funzionò nella strategia comunicativa dell’allora nascente Forza Italia fu il fenomeno della cosiddetta criptomnesia, ovvero venne identificato come nuovo qualcosa che già si conosceva e lo si inserì all’interno della formula politica. Le parole chiave: libertà, sicurezza, lavoro. Il linguaggio? Quello ‘della crisi’. Vi ricorda qualcuno forse?
Come ti mantengo il consenso
Contrariamente a come si potrebbe pensare, il momento post-politico è quello più arduo. Entra in gioco la fase istituzionale, quella in cui il tutto della campagna elettorale non è più concesso e la corsa alla poltrona si trasforma nel mantenimento della poltrona (e delle promesse). Ecco perché il processo di comunicazione politica è un processo di socializzazione politica dei cittadini: in breve, gli effetti delle pratiche discorsive si avranno se si stabilirà una continuità tra linguaggio politico, propaganda e prassi istituzionale. In questo senso, nella fase istituzionale il linguaggio politico è importante sia nel processo di formazione delle leggi che in quello di decision making perché si inserisce nel rapporto tra governanti e governati mediando quel bisogno di sicurezza che i cittadini cercano costantemente. Oggi il processo di comunicazione politica permanente e il continuo rassicurare i cittadini (non solo dal terrorismo, ma anche dalla casta, dai privilegi, dall’Unione europea, così come dagli eurocrati e dalla BCE) ha capovolto le impostazioni originarie, preferendo il rappresentante politico per ciò che è e non per ciò che fa. Nel gergo di analisi, lo standing for al posto dell’acting for, ovvero l’immagine più che la policy. Nell’uso comune che tutti conosciamo, il leader che ‘dice le cose come stanno e non ha peli sulla lingua’.
Per concludere, i leader politici di oggi hanno buttato nella mischia nuovi termini e nuove retoriche che smontano il linguaggio politico tradizionale. Dalla democrazia economica al market populism passando per le democrazie dis-avanzate, queste furbate retoriche non solo giustificano la de-responsabilizzazione dei politici rispetto alle politiche che dovrebbero portare avanti, ma favoriscono inoltre il processo di de-politicizzazione che oggi contraddistingue le nostre democrazie.