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Sono Solo Complimenti, oppure no? Comunicare catcalling e street harassment: due chiacchiere con Martina Bellani, founder di SSC

Sono Solo Complimenti, oppure no? Comunicare catcalling e street harassment: due chiacchiere con Martina Bellani, founder di SSC

Quando nell’ottobre 2017 l’hashtag #MeToo finì in trend topic su Twitter, in quel momento un velo squarciò la patina che copre il mondo del cinema e dello spettacolo e i riflettori si accesero sulle mila denunce di molestie e abusi sessuali. Era il 15 ottobre e a twittare Me Too era stata Alyssa Milano, la Phoebe Halliwell della serie cult Streghe, che incoraggiava le donne a retwittare con l’hashtag Me Too per fare luce e dare al mondo “un senso della vastità del problema”. Nonostante il movimento #MeToo sia divenuto globale e abbia dato prova concreta di eventi sottaciuti, in Italia subiamo ancora il giudizio di chi dice che alla fine – se di molestia o violenza si è trattata – “ce la siamo andata a cercare”: è sempre colpa nostra, di una gonna troppo corta o di un tacco 12. Per dirla in maniera elegante, non siamo culturalmente maturi e ci scontriamo ancora con uomini violenti, prepotenti e arroganti convinti che la donna sia un oggetto. Quanto questo sia vero lo ha testato, sulla sua pelle e attraverso le testimonianze di tante donne, Martina Bellani, Digital Strategist e Founder di Sono Solo Complimenti, un progetto che su Instagram racconta le storie di reali episodi di cat calling e street harassment. A dare una mano a Martina ci sono: Daniela Baro Minuti, fotografa e creatrice del logo; Tonia Peluso, sociologa; Tamara Garcevic, illustratrice; Arianna Capulli, psicologa e psicoterapeuta in formazione.

Ciao Martina, è un piacere averti qui nella mia stanza virtuale. Vado dritta alle domande perché ci tengo che sia tu a spiegare come mai “Sono Solo Complimenti”. Quindi ti chiedo: che cos’è SCC e perché questo nome?

«Sono Solo Complimenti è un progetto di sensibilizzazione nato su Instagram nel marzo 2019. È nato a seguito di un mio sfogo su Instagram stories – sul mio profilo personale – a cui sono seguite decine di testimonianze che ho deciso di raccogliere e di pubblicare in uno spazio a parte, protetto e funzionale al dibattito e alla relazione. Non volevo restasse solo uno sfogo. Il nome è dovuto sicuramente alle skill che utilizzo per lavoro: analisi del contesto, analisi dei temi rilevanti, campi semantici e, soprattutto, temi ricorrenti. In quasi tutte le storie c’era questa espressione del paradosso per cui molestie, violenze, catcalling e abusi vengono scambiati, presentati e raccontati come complimenti, cosa invece assolutamente non vera. Tipo come in una ricetta: ho unito tutto et voilà».

https://www.instagram.com/p/CC5W35BIgwk/

Non è facile sentire testimonianze di molestie e abusi: come si comunica il cat calling e lo street harassment?

«Mi sarebbe tanto piaciuto fare la giornalista, non so se l’ho mai detto (sono ironica, lo dico almeno 4 volte al giorno), perché mi ha sempre affascinato il concetto di raccontare la realtà che vedo, studio e percepisco per renderla fruibile e condivisibile anche da chi quelle cose non le vive né sente. SSC ha quindi un taglio giornalistico, in cui le storie vengono riportate con gli stessi refusi, lessici e sintassi di chi quelle storie le ha vissute prima e raccontate poi. Mi piace pensare che il profilo sia una sorta di microfono per chi, spesso, non ha avuto voce, né supporto e accoglienza nella realtà. Lo sottolineo per fare capire come nelle storie non interveniamo mai, talvolta nemmeno correggendo i refusi, perché dal mio punto di vista sono comunicativamente molto eloquenti».

Sono d’accordo: l’autenticità del refuso. Ci sono aspetti o esperienze troppo difficili da raccontare? 
«Non è facile per nulla raccontarlo. Non è facile perché tenere a freno l’emotività o i pensieri che vorresti urlare o comunicare dopo aver letto certe storie non è per niente semplice. Ci limitiamo a diffonderle e a supportare chi ci scrive facendo sentire la nostra vicinanza e cercando di veicolare contenuti che possano far riflettere, innescare un dibattito e, perché no, dare fastidio».

Com’è giusto che sia, insomma. In tutto questo, che ruolo hanno i social media, secondo te, nel raccontare un tema così delicato come sono appunto le molestie e gli abusi?

«Penso che la comunicazione – i cui strumenti ne sono parte integrante ovviamente – sia fatta da e delle persone che la compongono. Nell’epoca in cui viviamo oggi, è impensabile affrontare temi di tutti i giorni senza il supporto dei social, semplicemente perché sono parte del quotidiano tanto quanto quello che vogliamo affrontare con SCC. Si aggiunge la facilità di raggiungere tante persone, le connessioni semplici che si possono creare e la facilità, anche piuttosto marcata, nel poter offrire contenuti a costi contenuti. 

Proprio perché delicato come tema, pensi ci possa essere qualche “rischio del mestiere”?

«Il rischio è che diventi – come molti altri temi – oggetto di una content strategy e di un piano editoriale dove il focus non è tanto l’argomento, quanto più cosa l’argomento possa offrirmi. Lo avevo previsto in fase di setup del progetto ed è stato l’altro motivo che mi ha spinto a scegliere di far parlare le storie, invece che essere l’ennesima voce che spiega come funziona, cosa pensare, cosa devi sapere e cosa no. Non volevo creare un profilo che servisse a veicolare pensieri: volevo e voglio un profilo che serva a veicolare delle realtà, a cui poi ognuno può far seguire il suo pensiero».

Capita di ricevere commenti sul profilo di SSC, da parte di donne e uomini, che hanno come intento quello di sminuire il catcalling e le molestie e di criticare le modalità di comunicazione?

«Sì, sono all’ordine del giorno, per quanto riguarda le storie riportate; per quanto riguarda le modalità di comunicazione no, non direi, ma sono capitati commenti in cui ci venisse chiesto di più, di fare informazione ad esempio. Per quanto riguarda il processo di banalizzazione e lo sminuire le storie raccontate, fa parte della realtà anche questo. Se sono stata abbastanza precisa e chiara in quel che ho detto prima, penso si capirà che per me non è un problema. Certo, ci assicuriamo che le vittime del racconto stiano bene: ci è capitato di scriverci quando un contenuto è andato online, per cercare di assicurarci che i commenti non fossero oggetto di sofferenza. Come dicevo prima, però, fa parte della realtà: non voglio un profilo in cui si parli solo di quanto sia brutto il catcalling, quanto facciano schifo le molestie alle donne solo in quanto donne e quanto esista e sia radicata nelle nostre vite la tanto decantata cultura dello stupro. Non si spiegherebbe perché allora fuori esista quello che raccontiamo». 

Come ti comporti con gli scettici (per usare un termine elegante)?

«Personalmente è con chi non capisce, sminuisce e banalizza che voglio dialogare perché è con loro e attraverso loro che arriverà il cambiamento. Quindi no, non faremo informazione sul profilo su cosa sia giusto pensare, cosa sia giusto dire o sentire – cosa che per altro fanno già altri, quindi non capisco che contributo potrei dare. Ma continueremo a sollecitare queste dinamiche, che sono le colonne portanti del progetto: fare un’analisi della realtà, fornire strumenti e argomenti per comprenderla – attraverso le esperienze -, creare dibattito, evitare i cori da stadio o, per meglio dire, generalizzazioni e polarizzazioni che rischiano di fare del male alla causa (benché carichi di frustrazione e quindi assolutamente comprensibili)».

Vorrei chiederti un tuo parere, partendo dall’esempio che ci è arrivato da Sex Education, la serie prodotta da Netflix UK. Nel 3° episodio della seconda stagione, si affronta proprio il tema delle molestie: secondo te, in Italia, fenomeni come molestie, catcalling e harassment sono raccontati come dovrebbe essere? Qual è l’impressione generale che ti sei fatta dalle storie che ricevi?

Se ne parla poco e non quanto e come si potrebbe e dovrebbe. Ora si sta cominciando di più a farlo – rispetto a quando siamo partite -, ma c’è comunque molto margine di miglioramento. Questo che ti dico è supportato – ovviamente – da feedback e dati raccolti: persone che raccontano a noi cose taciute per anni (addirittura decenni), prese dalla consapevolezza dopo aver letto altre storie e che ti fanno capire che un’esperienza simile l’hai vissuta anche tu. Prima non sapevi nemmeno cosa fosse e avevi paura a parlarne – se non qui, nel profilo, tra sconosciuti che di te sanno poco niente – perché fuori c’è il timore di non essere accolti e compresi. Se ne deve parlare proprio per questo: per rendere cat calling, street harassment e molestie oggetti di comunicazione in modo che possano essere verbalizzati da tutti, in qualsiasi momento, senza alcuna ripercussione. Ci proviamo almeno.

Ecco, secondo me ci state riuscendo molto bene e sono contenta che tu abbia raccontato Sono Solo Complimenti qui nella mia stanza virtuale. Anche io ho una storia. Anni fa rientravo a piedi dal mare, dalle parti di Briatico (VV) con un’amica, camminavo dal lato della strada, quando mi arriva una pacca sul c*** da una macchina in movimento carica di ragazzi: sono rimasta di sasso e ricordo ancora il colore di quella punto. Era grigio scuro e io odio le macchine grigio scuro.

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Elania Zito
Elania Zito

Sono Elania e sono una Digital Communication & PR Strategist. Sono specializzata in comunicazione e linguaggi, in particolare in comunicazione europea e integrazione europea. Racconto l’Europa fuori dalla bolla con la mia newsletter Bubble e il podcast settimanale UEcup!, ho un Dottorato di Ricerca in Studi Politici e lavoro principalmente con Bruxelles. Ho scritto “La comunicazione politica in Italia” e un saggio sulla leadership di Mario Draghi.

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