
In queste ultime ore, precedenti all’ultimo DPCM, mi sono confrontata con familiari, amici e colleghi sulle nuove disposizioni governative che saranno in vigore da domani, 26 ottobre: ristoranti, bar, pasticcerie chiudono alle 18 (restano aperti domenica e festivi); stop a palestre, piscine, centri benessere, centri termali e centri culturali; incentivazione dello smart working e didattica a distanza al 75% per le scuole superiori; chiusi teatri e cinema. Tutto questo fa male.
Attorno a me ci sono familiari che da poco hanno inaugurato la loro attività di ristorazione e altri che stanno facendo i salti mortali, tra burocrazie e risorse, per avviare la propria; amici attori che, in questi mesi dalla riapertura, hanno fatto su e giù per l’Italia per un provino o per mettere in scena spettacoli all’aperto o girare una nuova produzione che vedremo nelle sale cinematografiche o nei teatri, chissà, forse durante la prossima primavera. Ho amici medici preoccupati dai numeri in aumento che si domandano dove stanno le risorse che dall’alto avrebbero dovuto impiegare per potenziare le strutture ospedaliere e amiche infermiere stanche perché i positivi sono sempre di più e il personale ospedaliero sempre di meno. E poi ho amici arrabbiati perché non tutti i lavori si possono fare in smart working: l’attore, il musicista o il ballerino; lo chef, il barista, il personal trainer. E c’è chi lavora con gli eventi, come i fioristi, i wedding stationery e i party planner, senza dimenticare chi lavora nel settore dell’agricoltura e del turismo (ci sono Regioni che vivono soprattutto di questo).
È dura e il sentimento di rabbia misto a frustrazione e delusione lo avverto dagli audio e dai messaggi che ricevo su WhatsApp da amici, parenti e colleghi sulle nuove disposizioni, dai commenti dubbiosi sul sistema di contact tracing e di assistenza sanitaria che leggo su Twitter, dalla rassegnazione nei post della mia cerchia su Facebook e Instagram. Insomma, la rabbia, in queste condizioni di estrema incertezza, è un sentimento comprensibile – e certo condivisibile – soprattutto nei confronti di gestori dei locali che hanno rispettato con scrupolo, in questi mesi di riapertura, i protocolli di sicurezza o dei proprietari di palestre e piscine che hanno messo in sicurezza interi centri sportivi per garantire a tutti noi di tornare in forma, dopo pizza e pane fatti in casa. Io stessa sono stata felicissima di poter prendere cornetto e cappuccino al mio bar preferito, di cenare fuori come in un normale sabato sera e di allenarmi insieme al mio personal trainer. E adesso non potrò più farlo, di nuovo.
Ma permettetemi di esprimere quello che penso – e so che quello che dirò in queste righe verrà probabilmente attaccato e rifiutato -, ma voglio farlo comunque, a fronte di tutto quello che stiamo subendo tutti, a tutti i livelli: lavorativo, sanitario e anche psicologico. In questi mesi dalla riapertura, ci siamo convinti di essere tornati alla nostra vita pre-lockdown tra baci e abbracci, cene, aperitivi, convegni e matrimoni. E perché no, anche Tinder. Ma quello che è successo ha a che fare, tra le altre cose, anche con il nostro atteggiamento di negazione (a voler gettare la colpa alla pandemic fatigue).
Ci siamo convinti piano piano di essere tornati alla normalità, ma quello che abbiamo vissuto, in realtà, non è stato altro che una parvenza di normalità: abbiamo lasciato negli scaffali il lievito e messo al braccio la mascherina; abbiamo ballato, bevuto e mangiato dimenticandoci delle regole su come si trasmetta il contagio e abbiamo fatto cadere i meccanismi di difesa perché “non ce n’è Coviddi” e neppure coscienza.
Non possiamo dire di essere stati completamente ligi alle regole perché, a conti fatti, non è stato così durante questi mesi estivi: da locali pieni zeppi di gente (senza mascherina) alle discoteche in spiaggia, abbiamo applaudito a pareri di sedicenti virologi e scienziati che non hanno fatto altro che costruire un racconto pericoloso e fazioso, alimentato da leader politici che “la mascherina non la indosso perché il Covid non esiste più” e che oggi si ergono a paladini di piccoli commercianti e imprenditori.
Conosco molte realtà che si sono rimboccate le maniche per riaprire in sicurezza e mi dispiace che, per via del comportamento di alcuni, debbano subire le conseguenze delle disposizioni interi comparti (soprattutto cinema, teatro e spettacolo, tra i primi a chiudere nel primo lockdown e tra i più colpiti dalla pandemia). Abbiamo tutti le nostre colpe, già solo per aver tenuto (e continuare a tenere) il naso fuori dalla mascherina – e no non è una metafora. Il governo, da parte sua, avrebbe potuto lavorare di più e meglio sulla comunicazione istituzionale e avrebbe dovuto lasciare da parte posizioni propagandistiche per ricorrere piuttosto a strumenti finanziari urgenti (come il MES) per potenziare e rafforzare il sistema sanitario, permettendo alle strutture ospedaliere di reggere l’urto, prevedibile, della seconda ondata. Lasciatemi dire: con quale velleitaria pretesa gridiamo oggi ai diritti all’istruzione e alla cultura se in questi anni abbiamo lasciato che li calpestassero tagliandone i fondi e mettendoli sempre all’angolo? Chiedo, ma non per un’amica. Le pezze, certo, potevano essere messe in questi tre mesi, ma siamo arrivati in ritardo: sul digital divide e sulla didattica a distanza, sui controlli e sui trasporti; sulla buona informazione e sullo smart working; sulle terapie intensive e sul personale ospedaliero. E così abbiamo sprecato anche l’occasione di migliorare molte di queste lacune.
Mi sento dire che sono una privilegiata perché io il mio lavoro posso continuare a farlo, in smart working. E questo è vero – e per questo mi sento molto fortunata. Ma sono anche dispiaciuta, delusa e risentita di fronte a molta noncuranza. Non ditemi – ve ne prego – che di una seconda ondata non ne avevamo idea perché, mentre stavamo con i piedi nell’acqua, scienziati, medici e virologi accreditati non hanno mai smesso di avvisarci e, per tenerci informati, sarebbe stato sufficiente leggere qualche notizia. Una pandemia è una pandemia e non scompare da un giorno all’altro. Ma io non sono una scienziata: sono una giovane professionista che vede crepe, fratture e nuove diseguaglianze in questa situazione di instabilità. Ma sono anche un “soggetto fragile” per il Ministero della Salute e per questo non ho mai smesso di portare la mascherina e di arrabbiarmi con negazionisti, cospirazionisti e no-vax.
Ma ecco, forse, adesso siamo tutti un po’ fuori tempo massimo: potevamo pensarci prima, ma i potevamo non hanno mai salvato nessuno. La scienza, quella sì. E almeno questa volta – sperando che sia l’ultima – proviamo a fidarci.