
Se è vero che i dati sull’imprenditoria femminile sono cresciuti nel 2017 (+10 mila imprese femminili iscritte alla Camera di Commercio) è altrettanto vero che in busta paga ci ritroviamo ancora quel tot in meno rispetto al nostro collega dalla barba incolta. ‘Toglieteci tutto, ma non il nostro stipendio’ (e le décolleté): è lo slogan che dovremmo tirar su dall’alto della nostra emancipazione 4.0 perché che dir si voglia, ad oggi, l’Italia non è un Paese per donne. O per lo meno, è un Paese per donne pagate di meno rispetto agli uomini.
Global Gender Gap Report
È sufficiente dare un’occhiata all’ultimo Global Gender Gap Report del World Economic Forum per renderci conto di quanto siamo ancora lontani dall’eliminare totalmente le disparità uomo donna, come invece ha fatto l’Islanda, che ha stabilito per legge la parità salariale uomo/donna.
L’anno scorso il World Economic Forum ha stimato che per colmare il divario di genere ci vorranno 100 anni e altrettanti 217 in termini economici (altre 8 generazioni), se i ritmi continuano con questa tendenza. Oggi il divario di genere è un problema che tocca settori nuovi, con il rischio di un nuovo gap di genere in campi come quello dell’Intelligenza Artificiale (AI) e delle discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) dove la presenza occupazionale è a prevalenza maschile. Secondo le stime, infatti, entro il 2025 in Europa ci saranno circa 7 milioni di posti di lavoro in più nel settore STEM che andranno a costituire l’85% dell’occupazione totale e, ad oggi, in Italia, solo 4 laureati su 10 in queste discipline sono donne.
Dal Rapporto sul gender gap, emerge che l’Italia, pur avendo guadagnato 12 posizioni rispetto all’anno scorso nella classifica generale di riduzione del gap (dall’82° al 70° posto), ad oggi fatica a salire nel rank, posizionandosi al 118° posto su 149 Paesi per partecipazione economica e opportunità. Il Rapporto, che tiene conto di fattori come partecipazione e opportunità economiche, livello di istruzione, salute pubblica e rappresentanza politica, mette in evidenza i limiti con cui dobbiamo confrontarci ancora oggi: la differenza salariale tra uomo e donna è pari al 57% (una donna in Italia guadagna mediamente 25 mila euro l’anno rispetto ai 44 mila del collega maschio). Una nota positiva viene dall’iscrizione all’Università, primato che conferma che le donne italiane sono tra le più istruite (il 60% di laureati con lode è composto da donne).
Per quanto riguarda la rappresentanza politica, il divario di genere è al 56%, un dato che l’ultima campagna elettorale non ha di certo contribuito a ridurre, con l’effetto-flipper che ha favorito l’elezione dei colleghi maschi (come spiega La Stampa). Mentre, per restare in tema, a Davos – lì, dove i leader del mondo si incontrano e prendono le decisioni sul futuro economico – la presenza femminile si ferma al 22%.
Gender budget
Una nota positiva è venuta negli anni scorsi dal gender budget, ovvero il bilancio di genere che misura l’impatto delle politiche di bilancio su uomini e donne in termini economici e lavorativi, ma anche di servizi, tempo e lavoro non retribuito. In Italia, qualcosa in questa direzione è stato fatto. Il bilancio di genere è stato previsto, infatti, per la prima volta a livello nazionale nella Legge di Stabilità del 2016 con la previsione di alcuni strumenti di inserimento della prospettiva di genere: dal congedo di paternità (esteso di un giorno obbligatorio) ai voucher per il baby sitting e i buoni per gli asili nido, dal Fondo di solidarietà a tutela del coniuge in stato di bisogno alle misure di pari opportunità negli accessi alle cariche elettive, oltre al rafforzamento del principio di equilibrio di genere nelle società pubbliche e l’estensione della cosiddetta ‘Opzione Donna’ in ambito pensionistico.
Com’è finita?
Pari opportunità e bilancio di genere non sembrano essere ad oggi delle priorità del Governo in carica. A voler, infatti, trovar del buono nell’ultima manovra approvata, potremmo promuovere con buoni voti l’estensione dell’Opzione Donna, mentre, tra nuovo congedo di maternità (a lavoro fino al 9° mese di gravidanza!) e riduzione del vecchio precario congedo di paternità a un giorno, non sembra esserci molto spazio in questa legislatura per le politiche rosa. Eppure, noi donne costituiamo il 30% della ricchezza privata globale, una cifra destinata a crescere del 7% ogni anno secondo il Boston Consulting Group e qualcuno – come UBS – già pensa che il futuro sia investire nella parità di genere. Insomma, vorrà pur dire qualcosa questa parità, o no?