Sarà che alla semifinale di Sanremo arriviamo sempre stanchi, sarà che i social media ci danno sempre il (sacrosanto) diritto di parola. Sta di fatto che l’Ariston è sempre teatro di polemica, prima ancora che della musica italiana. O napoletana – per chi scrupolosamente ama mettere i puntini sulle i. E sia mai che il dialetto acquisti popolarità, rompa le casse di Spotify e arrivi nelle case degli italiani direttamente dal primo canale del servizio pubblico. Sarà, quindi, che a ogni semifinale di Sanremo arriviamo sempre stanchi dopo le notti insonni precedenti che – alla fine della fiera – ci lasciamo andare a fischi e cortisolo. Senza guardare in faccia nessuno. Neppure se davanti abbiamo un artista che di nome fa Geolier, poco più che ventenne, con ancora un futuro tutto davanti e un presente da top player, in testa alla classifica di Sanremo e nella top 50 Global di Spotify.
Durante il Festival di Sanremo, delle belle parole e dei dolci gesti ce ne facciamo veramente poco. Nella settimana dei fiori e delle canzonette, non ci sono sentimenti e solidarietà che tengano, siamo accaniti contro tutto e tutti. Perché “io questa cosa l’avrei fatta così”. Sanremo parla della violenza sulle donne? Sì, ma il testo l’ha scritto un uomo. I ragazzi di Mare Fuori lo raccontano con nuove parole? Sì, ma sembra di leggere i baci Perugina. Giovanni Allevi racconta il tumore? Sì, ma è pornografico. Sanremo dà voce al rap e alla trap? Sì, ma vuoi mettere Angelina. E ancora. Una gag venuta male? Un caso mondiale e due accuse: la pubblicità occulta e il greenwashing. Again.
Come ogni anno, seguo con passione e affetto Sanremo. Un po’ perché ci sono legata artisticamente, nel mio passato da cantante – che ho lasciato nel passato appunto (perché nella vita ho deciso poi di studiare Relazioni internazionali). Un po’ perché Sanremo racconta davvero l’Italia. La politica, le generazioni che passano su quel palco e costruiscono un pezzo di storia della musica italiana. Performance dopo performance, genere dopo genere. Una vetrina talmente grande del sentiment nazionalpopolare che non servirebbe neppure aprire i tool di analisi per scoprire che ciò che viene detto a Sanremo fa l’agenda mediatica. E politica.
Qualche settimana fa ho fatto un po’ di ordine qui sul mio blog e ho mandato nel cestino alcuni articoli lasciati in bozze che avevo iniziato a scrivere negli anni scorsi, durante i vari Sanremo, tra un blocco pubblicità e l’altro. Non so bene perché io non li abbia poi ultimati e pubblicati – magari per via di un qualche blocco dello scrittore o forse per un accenno di soffitto di cristallo. Però negli anni scorsi avevo iniziato a scrivere una cosa molto simile a questa. Solo che non c’erano i fischi a Geolier, non c’erano i protagonisti e le protagoniste di Mare Fuori a darci un nuovo vocabolario sulla violenza di genere e non c’era il ballo del qua qua.
C’erano però Drusilla Foer nel 2022 che ci aveva raccontato dell’unicità, al contrario della diversità che “ha in sé qualcosa di comparativo e una distanza” che non la “convincevano” allora. C’erano i Måneskin che vincevano Sanremo 2021 e ci tornavano da ospiti nel 2022, dopo aver portato a casa anche il primo posto all’Eurovision Song Contest con Zitti e Buoni, portando il rock italiano su Tik Tok e quindi nel mondo. C’era Francesca Fagnani che, più che parlarci di se stessa, ci portava le parole dei giovani detenuti nel carcere minorile di Nisida perché «ci sono parole che per arrivare sul palco di Sanremo devono abbattere muri, pareti, grate e cancelli chiusi a tripla mandata». E lei lo fece parlando di responsabilità di Stato e rieducazione. C’era Gianni Morandi sul podio – perché la musica non ha età – e c’era Mahmood che ci raccontò le sue difficoltà con Soldi e ci fece venire i Brividi con Blanco nel 2023.
Ecco, io non so bene perché quegli articoli non li abbia mai chiusi e li abbia lasciati lì, a perdere di valore. Ma, mentre ripercorrevo la quarta serata di Sanremo e leggevo delle “accuse” rivolte a Geolier in sala stampa per aver “rubato” i voti, ho pensato che ciò che è stata la direzione artistica di Amadeus in questi cinque anni andava ripristinata dalle bozze e messa online.
Perché se i meme dei The Jackal ci alleggeriscono le giornate a lavoro, i pov di Mattia Stanga e la quotidianità di Daniele Cabras danno voce a un posso farcela anche io, e il FantaSanremo unisce Gen Z, Millennials e Boomers è perché Sanremo è cresciuto tanto in questi cinque anni. E il merito è di Amadeus e di tutta la squadra che ha al seguito, con cui ha saputo costruire questa nuova infrastruttura musicale, dove tutti vogliono salire e farci un giro.
E dunque. Sarà che alla semifinale di Sanremo arriviamo sempre stanchi e, chissà, magari le poltrone dell’Ariston non sono molto comode – io questo non lo so, perché non ci sono mai stata. Ma mentre ripensavo a come si è conclusa la quarta serata di Sanremo, ho pensato che nessuno merita i fischi. E la platea vuota. Che sia all’Ariston o all’Aristonello. Perché abbiamo il (sacrosanto) diritto di parola, quello sì. Ma di certo, non abbiamo il diritto di essere giudici, giuria e carnefici. Verso nessuno. Soprattutto verso gli artisti e le artiste. Verso le persone.