Sono spaventosi alcuni dei commenti che ho letto e ascoltato sul monologo di Giovanni Allevi che ieri, dal palco dell’Ariston, ha raccontato il dolore, la difficoltà e la sofferenza del vivere con una malattia. Un monologo scontato per alcuni, per altri da evitare. C’è chi l’ha trovato “pornografico nella sua esibizione del dolore” – come riporta Giulia Blasi nella sua newsletter “Servizio a domicilio” – e c’è chi ha apprezzato i real time content liberamente ispirati dalle parole di una persona con una malattia. Per fortuna i commenti negativi e le licenze ironiche sono meno dell’onda di positività e affetto che Allevi ha ricevuto tra ieri sera e oggi. Però, resta il dato: i commenti ci sono. E sono una macchia spaventosa. Perché sintomatico della perdita di sensibilità e umanità sacrificate in un mondo che scorre, performa, accelera. E nasconde, nel bene e nel male, anche le malattie dietro i social media.
Mentre ascoltavo il monologo di Giovanni Allevi ho pianto. Perché quelle parole avrei potuto dirle io, come qualsiasi altra persona con una malattia. Rara, cronica o tumore che sia. “All’improvviso mi è crollato tutto”. Succede quando, dall’altra parte di una scrivania ospedaliera, ti confermano i sospetti di settimane e mesi di analisi ed esami e pronunciano poi la diagnosi ufficiale. Succede, quando senti per la prima volta il nome della malattia che ti porti dentro. E che ti porterai per tutta la vita. Crolla tutto perché è vero che, quando manca la salute, manca tutto. Non è solo un proverbio.
Non avevo ancora pianto. Cioè, non sapevo che avrei pianto sentendo il monologo di Allevi. Più che altro, mi sentivo preparata ad ascoltarlo. Allenata, forse più che preparata. Perché sapevo della sua malattia, perché conosco e riconosco il suo dolore, le scartoffie, i percorsi, i test, i farmaci. E il mondo addosso. E il tuo mondo che cambia.
Quello che non sapevo, però, è che avrebbe parlato dell’aspetto psico-fisico della malattia. Un aspetto troppo spesso non considerato da chi ci vede da fuori. E quindi accettato per come è, in superficie. Non è tanto, infatti, “il dolore alla schiena” di Allevi ad avermi fatto diventare gli occhi ludici, “talmente forte” da “non riuscire ad alzarsi dallo sgabello”, per ringraziare il pubblico della Konzerthaus di Vienna, al suo ultimo concerto. Su quello ho annuito e sorriso pensando a quando, per via del mio mal di schiena cronico, mi capitò di alzarmi dalla sedia durante una riunione – scusandomi, perché la mia malattia mi costringe a non stare né troppo in piedi, né troppo seduta. E mi ritrovai poi derisa per questo.
Non è stato tanto l’aver raccontato la difficoltà a ricevere un applauso, dicevo. Quanto più l’aver raccontato il legame che, dopo la malattia, Allevi ha perso con la propria persona e individualità. “Ho perso molto: il mio lavoro, ho perso i miei capelli, le mie certezze”. Sono state queste le parole che mi hanno fatta commuovere (ammesso che questo si possa ancora dire, di questi tempi).
Si racconta di noi persone con una malattia come guerrieri e guerriere – nel mio caso, anche come di donna forte (perché un po’ di girl power non guasta mai). E non biasimo Allevi per aver usato, anche lui da parte sua, il termine guerrieri – a dispetto del quale si cerca ultimamente di trovare una narrazione più inclusiva e forse più dignitosa. Ma a volte anche io stessa – che ci sono dentro a questa giostra – non so come definirmi. Perché sì, spesso è una vera e propria battaglia quotidiana che faccio con il mio corpo. O meglio, che lui fa con me – senza che io abbia mai detto al mio sistema immunitario #sentitilibero di fare come ti pare, dopotutto.
Ed è proprio una questione di corpo. Ma anche di stabilità con noi stessi. E di percezione personale. Qualcosa che non può essere capito da chi non vive questo cambiamento che ci è imposto. E che, per omissione di sensibilità, reputa scontato, da evitare o pornografico.
Perdere i capelli, vedersi diversi allo specchio per una cosa che nessuno qui ha chiesto non è qualcosa da evitare. Certo, noi persone con una malattia lo eviteremmo volentieri, questo lo assicuro. Ma quello che non possiamo evitare è la superficialità delle sentenze della macchia spaventosa. Ma possiamo contrastarla. Con i doni e le virtù. Come ha fatto Giovanni Allevi ieri sera sul palco dell’Ariston e che ci racconta “sono quel che sono” nonostante tutto, nonostante la neuropatia e due vertebre rotte. E che non potendo contare più sul suo corpo suona “con tutta l’anima”.
Siamo quel che siamo. Oggi e Tomorrow. E mi dispiace che alcuni abbiano la vista appannata e le orecchie poco allenate per vedere e ascoltare l’esperienza del vivere con una malattia. Rara, cronica o tumore che sia. Come si dice: peggio per loro.
Una persona eccezionale.